I consumatori italiani, secondi dopo il Messico per acquisto di acqua in bottiglia, sono poco consapevoli di chi e cosa c’è dietro a questo business. A fronte di concessioni di estrazione esigue (al massimo 2 millesimi di euro al litro) le multinazionali dell’acqua imbottigliata fanno pagare a caro prezzo l’involucro in PET, alimentando i ben noti problemi di smaltimento della plastica.
Ne abbiamo parlato tempo fa nel blog segnalando un video geniale che ha fatto il giro del mondo social, grazie alla lucidità con cui espone il problema della produzione e dello smaltimento dell’acqua in bottiglia.
Oggi però ci soffermiamo su una questione ulteriore: l’acqua in bottiglia di plastica fa male? Rispondiamo in tre punti.
Microplastica nell’acqua in bottiglia
Il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università Statale di Milano ha scoperto che durante le operazioni di apertura e chiusura del tappo di una bottiglia di plastica microscopici frammenti di plastica si depositano sul bordo della bottiglia, sul fondo e sul tappo stesso. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Water Research ed ha evidenziato che centinaia di migliaia di microparticelle vengono ingerite tutte le volte in cui si beve acqua direttamente dalla bottiglia di plastica.
Secondo Paolo Tremolada, uno degli autori dello studio: “i produttori dovrebbero garantire ai consumatori la purezza dell’acqua anche rispetto al contenuto di plastica, come già accade per batteri e altri contaminanti. Invece, non essendoci controlli c’è il rischio che un elevato quantitativo di microplastiche entri in contatto con l’organismo o sia disperso nell’ambiente e quindi possa finire di nuovo nel cibo per via indiretta”.
Per l’Università di Victoria in Canada, invece, ogni anno ingeriamo 50 mila microparticelle di plastica e la fonte di contaminazione più importante è costituita proprio dall’acqua in bottiglia, che contiene in media 22 volte più microplastiche dell’acqua di rubinetto.
Contaminazione chimica e biologica
“Conservare al riparo dalla luce, in luogo fresco e asciutto, lontano da fonti di calore”: è quanto si legge sull’etichetta delle bottiglie d’acqua che comunemente si acquistano al supermercato e si tratta di un’indicazione molto precisa riguardo la necessità di un corretto stoccaggio del prodotto. Esposte a fonti di calore le bottiglie in PET tendono a rilasciare nell’acqua elementi nocivi: si stima siano circa 29, tra i quali antimonio e acetaldeide.
La migrazione di sostanze chimiche dall’imballaggio all’alimento è un problema tipico del settore e varia in base ad alcuni fattori come la qualità del PET costruttivo, la modalità di conservazione e l’esposizione a fonti di luce e calore.
Ma anche qualora i consumatori prestassero la massima attenzione alla conservazione delle bottiglie d’acqua, chi li garantisce dal pericolo che tutti gli altri, lungo la filiera di trasporto e vendita del prodotto, abbiano usato gli stessi riguardi? Secondo Silvano Monarca, docente dell’Università di Perugia, le temperature di trasporto, spesso superiori ai 50 gradi, favoriscono grandemente la migrazione delle sostanze tossiche nell’acqua.
C’è di più. La sicurezza microbiologica dell’acqua in bottiglia si esaurisce all’apertura: l’acqua andrebbe infatti consumata entro 24 ore e mai e poi mai la bottiglia dovrebbe essere riutilizzata. Se si beve poggiando le labbra sulla bottiglia è ancora peggio perché si introducono molti batteri, rompendo l’equilibrio igienico iniziale.
La vergogna dello spreco d’acqua
L’acqua in bottiglia di plastica fa male anche all’ambiente ed è arrivato il momento di liberarci da una schiavitù favorita dagli interessi economici di alcuni ma, occorre ricordarlo, alimentata da una nostra pigrizia personale, dalla incapacità di modificare uno status quo, una linea di comportamento alla quale ci siamo abituati.
Quante volte, per esempio, ai primi sintomi della disidratazione, acquistiamo fuori casa bottigliette d’acqua, quando potremmo ricaricare una borraccia nelle fontanelle pubbliche? Il risparmio di acqua in bottiglia è naturalmente una precisa responsabilità non solo del singolo ma anche di istituzioni e attività commerciali: è nelle scuole, nelle università, nei centri di aggregazione che il terreno è più fertile per l’instaurazione di nuovi stili di vita e nuove abitudini, più sane e sostenibili.